La clinica transculturale inoltre parla di trauma migratorio anche in senso lato
Marie Rose Moro afferma che la codifica culturale avviene a tre livelli:
il livello dell’essere, il livello del senso e quello del fare, anche il concetto di salute è dunque declinato allo stesso modo all’interno di ogni specifica cultura.
Il livello dell’essere si riferisce al fatto che in ogni sistema culturale l’individuo trova le risposte alle domande che riguardano il piano ontologico: “Chi è un uomo? Chi è una donna? Chi è un bambino? Chi è una persona?
Il secondo livello, quello del senso, rimanda a interrogativi del tipo: “Perché mi sono ammalato? Perché proprio adesso? Perché i miei bambini si ammalano? Perché io mi sono salvato e il mio amico no?” Cioè la significazione dell’esperienza
Il terzo livello a cui le culture rispondono è il piano del fare, cioè come si interagisce con la realtà a partire dai significati dati, ovvero le pratiche di prevenzione, di cura, di compensazione, di superamento.
Tutti i sistemi culturali, dice Marie Rose Moro, hanno la capacità di sorreggere il gruppo e i singoli esseri umani rispetto alle domande esistenziali: che senso ha quello che mi sta accadendo e che cosa devo fare?
Le risposte prima di essere individuali sono collettive e nascono dalla cultura di appartenenza. In questo senso, la cultura interna, quella interiorizzata e vissuta, mantiene una sua capacità di evoluzione dinamica nella misura in cui trova sostegno nella cultura esterna che è omologa, che la rispecchia. La migrazione comporta un’interruzione del rapporto di continuo scambio e rafforzamento reciproco tra cultura esterna e cultura interiorizzata, impedendo quella forma di rispecchiamento che permette di mantenere viva la capacità del sistema culturale interno di orientarsi nel mondo e di dare senso all’esperienza. Per questo la clinica transculturale parla di trauma migratorio. Migrare significa andare in un paese nel quale, per gli altri, la maggior parte di quello che la persona pensa non ha senso.
Il mio modo di concepire la nascita, l’allattamento o la cura del mio bambino, il disagio psichico, la depressione o il fine vita, tutto ciò che insomma attiene alla significazione della malattia e alle pratiche di rimedio, valide nella mia cultura d’origine potrebbero non essere riconosciute e validate nella nuova cultura del paese ospite.
Per questo crediamo che l’approccio di cura della persona in un contesto interculturale benefici di dispositivi collettivi, che lascino spazio al confronto tra le pratiche di cura, che più che di un approccio assistenziale e duale del tipo medico/paziente, (psicologo/cliente, assistente sociale/utente ecc.)
Abbiamo bisogno della costruzione di contesti in cui accompagnarsi nelle esperienze di maggiore vulnerabilità attivando risorse di mutuo aiuto e mettendo in piedi dispositivi di intervento elastici, multidisciplinari e co-costruiti con la persona che sappiano partendo dal collettivo focalizzarsi se necessario sulle necessità individuali per mettere a punto risposte originali ed adatte.