ASINITAS Onlus is a not-for-profit organization founded in 2005. It is active in the field of education and social work. Its mission is to promote the care, education, training, sheltering and testimony of Italian and foreign adults and minors.

Supporto psicologico durante la quarantena

Supporto psicologico durante la quarantena

LE NOSTRE RISPOSTE ALL’EMERGENZA COVID-19 

Per stare a fianco di chi in questi giorni di emergenza sta in prima fila negli ospedali e per tutti coloro che non possono permettersi di stare a casa ad aspettare che vada tutto bene, abbiamo attivato due partnership per garantire un sostegno psicologico gratuito e di qualità,
con
Médecins du Monde – Missione Italia, e con la ONG Mediterranea

Diario di una psicoterapeuta in quarantena.


Stare vicino alle persone più fragili significa aiutare il nostro sistema sanitario
ad affrontare l’emergenza

Vi ricordate quando lo spazio privato e lo spazio di lavoro erano due luoghi distinti?

Cecilia Bartoli
psicoterapeuta Asinitas


Ore 7.00 mi sveglio, apro la finestra, l’aria fresca e pulita colpisce i miei polmoni, respiro.
Gli uccelli sembrano più felici in questi giorni. Chissà se è solo una consolatoria fantasia che la
natura goda di vederci un attimo fermi, un attimo da parte.
Mi faccio il caffè, vitamina C, spremuta, fermenti lattici.
Meditazione, lunghi e lenti respiri, intervallati da apnea, visualizzare i propri polmoni.
Uscire a correre, solo sotto casa ormai, conosco a memoria ogni portone, ogni angolo, ogni gatto
con le stesse svogliate abitudini mattutine.
Bisogna uscire presto al mattino per correre, la disapprovazione sociale si fa sempre più alta e ed
esplicita, fino all’insulto. Non sono una sportiva, ma ho bisogno di sentire i miei polmoni sotto
sforzo, corro, con una musica che pompa nelle orecchie, respiro finché non sento che mi bruciano,
la fantasia è che l’ossigeno possa pulire l’infezione, portarla via, dato che forse c’è. Pensiero
magico, non sono un medico e non so nulla di come agisce questa infezione, ma so che la
correlazione tra ansia e sistema immunitario è un’evidenza scientifica da tempo
, e quindi
nonostante questa stenti a passare nelle logiche di prevenzione dei nostri sistemi di salute
pubblica, dato che correre de-stressa, si corre. Sono 15 giorni che ho un forte mal di gola,
oppressione al petto, difficoltà respiratoria, non un colpo di tosse, non una linea di febbre. Ma
come tutti riconduco questi sintomi e le mie ansie al covid-19, ponendomi una domanda comune,
sarò una paziente asintomatica? Cerco di curarmi, come tutti gestendo lo spavento e la confusione
mediatica
. Mio figlio di 19 anni vive con me e non ha nemmeno un sintomo, anche se fuma
troppo, vorrei obbligarlo a smettere, ma come si fa in questo periodo a chiedergli una cosa in più.
Tenerlo a casa in osservanza delle norme è già abbastanza difficile. Ognuno di noi in questi giorni
vorrebbe stare accanto ai suoi affetti, alla sua famiglia. In pochi pensano che per un’adolescente la
famiglia sono gli amici e loro, pur essendo molto più abituati di noi agli schermi, ai video, alla casa,
ora soffrono la solitudine come animali in gabbia.
Rientro, disinfetto le scarpe, le metto fuori (ma servirà veramente? Che concentrazione virale ci
può essere su un asfalto esposto al sole?) Mi cambio metto i vestiti fuori, lavo viso e mani, preparo
la postazione di lavoro, pc vicino alla finestra, che ci sto lasciando gli occhi su questo schermo
colpito dalla luce. Ma il sole serve, il sole è medicina, la tazza con la tisana di zenzero accanto,
dicono che pure quella fa bene.

L’immagine del pc con una tazza accanto e dei libri sparsi sul tavolo, che mi guardano invitandomi
ancora una volta, almeno adesso, a una maggiore introversione, sempre desiderata e sempre
messa da parte. I libri per studiare che da una vita dovresti leggere, quelli di poesia per un altro
genere di respiro, i romanzi nella speranza che siano in grado di rapirmi in qualche altrove.
Comincio gli ascolti della giornata, i miei pazienti che ormai vedo quasi tutti su skype e quelli nuovi
che mi chiamano dai due sportelli on line di soccorso psicologico per l’emergenza a cui ho aderito
come volontaria.
Poi ci sono i parenti e gli amici, molti dei quali sono diventati anch’essi un lavoro,
poiché in questi momenti bisogna stare molto attenti alla fragilità che ci circonda, cogliere tra le
righe delle loro comunicazioni.
Mi era già capitato di lavorare on line, la mia seconda analisi didattica si svolge on line, un paziente
che viaggia per lavoro ogni tanto lo seguo così, ma non mi ci sono mai trovata bene, l’osservazione
e il vibrare dei corpi, è tanto in una relazione terapeutica.

Videopresenza e solitudine


La relazione terapeutica a distanza non è meglio o peggio, è un’altra cosa.
Sicuramente necessita di maggiore concentrazione, estrema attenzione, mancando i corpi ricevo
meno informazioni quindi sento una tensione nell’ascolto e nello sguardo che non avevo mai
sperimentato. La videocamera alla quale dovremmo essere estremamente abituati in questa
dimensione di perenne selfie collettivo, io non riesco a dimenticarla, né su di loro, né su di me, mi
da l’idea che sia uno sguardo terzo che entra, qualcosa la cui presenza non posso ignorare, che
non mi abbandona mai nemmeno nei momenti di commozione, o sfogo emotivo dei pazienti,
nemmeno tra le lacrime, le grida e i sussulti. Mi chiedo se in presenza sarebbero stati uguali, quei
pianti, quelle grida, quei sussulti, forse no. La distanza in un certo senso libera e a volte ho
l’impressione che ci sia grande autenticità.
Eppure quando chiudo la chiamata a fine seduta, non
riesco a liberarmi dalla sensazione che li sto lasciando dolorosamente soli. Un contatto senza
contatto. Rifletto sul mio controtransfert, non li ho mai amati così tanto come in questi giorni.
La solitudine è un tema ricorrente per tutti noi, chi la desidera in modo spasmodico: alcune
pazienti si collegano sedute sulla tazza del bagno: “mi scusi dottoressa, non c’è un altro luogo in
cui stare un po’ tranquilla” e di là si sente la televisione con i notiziari, grida con i bambini, un
rumore domestico che sembra non lasciare scampo. La tensione di convivenze al limite che arriva
all’improvviso durante la seduta, con il frenetico bussare alla porta di qualcuno.
E poi chi la solitudine la sta vivendo dolorosamente, allontanato dai genitori anziani, dal proprio
amore, dai propri punti di riferimento affettivi, sessuali.
E ancor più difficile per chi non sapeva,
non credeva di essere solo e ci si trova all’improvviso, con il proprio rapporto affettivo saltato e la
propria rete dispersa. Essere soli di fronte alla morte, alla paura del domani, con il proprio corpo
che è diventato oggetto di attenzione continua, più nel male che nel bene.
E mentre mi sento dire: “dottoressa, meno male che c’è lei”, dentro di me penso, meno male che
ci siete voi, che avete bisogno di me. Anche in questa strana forma di relazione, siamo connessi.
Connessi, con una connessione così fragile: “dottoressa mi sente? Mi sente? Aspetti spostiamoci
su wathsapp, possiamo lasciare il video su skype, ma la chiamo al telefono perché la connessione
va a scatti. Aspetti non la sento, diceva?” aggiustamenti continui di una comunicazione che a tratti
si fa estremamente difficoltosa, allora cerchi di estrapolare velocemente i momenti e i contenuti
significativi, cambiano i tempi di rimando, quei silenzi così gravidi nelle sedute in presenza hanno
cambiato atmosfera. L’ansia che la connessione si disturbi. Scegli parole efficaci, sintetiche, chiare,
semplici. Lavoro a togliere, non è detto che sia un male, anzi. Non c’è più spazio per il divagare e
per la complessità.
Bisogna intensificare l’intenzione verso l‘altro, la concentrazione, l’efficacia
comunicativa. Parole che buchino lo schermo si dice in gergo televisivo, mi torna in testa di
continuo: bucare lo schermo.
Ma in alcuni momenti invece la tentazione di distrarsi è fortissima, non si vedono che i visi, si
potrebbe leggere un messaggio sul telefonino nel frattempo, o fare qualsiasi cosa con il resto del
corpo, se se ne sentisse la voglia.
E poi c’è il tema della privacy, potrebbe esserci un terzo nella stanza in ascolto, nella mia e nella
loro. Qualcuno lo verbalizza: “dottoressa, ma è sola?” così giro il computer per la stanza: “si sono
sola”
Eppure nonostante questo a volte tutto è incredibilmente fluido, autentico, intimo. Lo noto
soprattutto con le persone che mi chiamano nello sportello di emergenza e penso che in
condizione normali, e con il setting abituale, forse avrei messo mesi a entrare nella stessa
dimensione di confidenzialità

La patologia collettiva che cura


Quando questa dimensione di isolamento sociale è cominciata ero preoccupata per i pazienti più
gravi, chi soffre di paranoia, gli ipocondriaci, i depressi, dentro di me dicevo: “Mio Dio come farò a
sostenerli a distanza”, crolleranno, le dimensioni patologiche si amplificheranno, sarà
difficilissimo.
Ma già nella prima settimana sono stata molto colpita dallo scoprire che era un pensiero ingenuo.
Queste persone sono estremamente più attrezzate a vivere le nuove circostanze. Anzi, è come se
finalmente vedessero riconosciuto da altri il disagio che portano dentro in solitudine da un tempo
che è parso loro interminabile.
Il sintomo vissuto sempre come marcatore di differenza e distanza, portato con vergogna, ma
intuito sempre come profetico nel profondo di sé stessi, oggi è socialmente legittimato. La
solitudine, l’isolamento è il problema più grande di chi soffre psichicamente, che come dice Jung
non deriva dal fatto di non avere nessuno intorno, ma dall’incapacità di comunicare le cose che ci
sembrano importanti o dal dare valore a certi pensieri che gli altri giudicano inammissibili.

L’atteggiamento sociale mutuato dalla tendenza culturale della psichiatria più diffusa, che è
somatologica, è di escludere la soggettività dai comportamenti e con essa la ricerca dei significati che
li connotano, e di ricorrere ai farmaci per l’attenuazione dei sintomi. La solitudine sociale delle
persone che soffrono psichicamente, spesso si consolida in un isolamento difficile da raggiungere.
Ma ecco che all’improvviso una patologia collettiva viene a ri-umanizzare il proprio vissuto,
donando la possibilità di riconoscersi negli altri, finalmente tutti fragili, vulnerabili, perseguitati ed
esposti
. Per dirla con De Martino, la possibilità di sentirsi nuovamente presenza, nuovamente
dotati di senso, in un contesto dotato di senso.
Così lei che soffre da anni di paranoia, che normalmente si sente controllata, spiata in qualsiasi
cosa fa, minacciata e convinta che il male la insegua, sfida serenamente la polizia e con la sua
autocertificazione in tasca è l’unica che viene a studio, si siede, mi guarda e mi dice: “me posso
toje la mascherina dottore’ ”
Così lui che soffre di una depressione piuttosto grave, spesso amplificata da scenari apocalittici
globali, tali da mettere sotto scacco quasi ogni volontà individuale, ora che tutti siamo fermi,
impotenti, sotto scacco, non si sente più un profeta nel deserto, ma qualcuno che ci spiega come
continuare a vivere. Ora finalmente la catastrofe sempre sentita dentro di sé può essere
esternalizzata, oggettivizzata e dunque forse anche oggetto di cura. Non l’ho mai visto tanto
sollecito verso il prossimo.

Sintomi in quarantena


Ma se chi sapeva di stare male, sta meglio. Chi non lo sapeva lo scopre all’improvviso.
Cos’è questa tirata dei nodi al pettine per cui saltano i rapporti di coppia, esplodono le convivenze
forzate, si rompono amicizie storiche per diverbi sulla lettura del presente, si entra in crisi in
rapporto a tutto, studio, lavoro. Che succede?
Ha l’aria della pulizia che fa la morte, che ci conduce rapidamente al netto della vita, la passa al
setaccio, ci chiede con forza per cosa valga la pena vivere, quali sono gli affetti più autentici, i
legami più veri. Un mio amico gay diceva con grande soddisfazione: “impareranno finalmente che
la famiglia, l’unica che conta, è quella con cui potendo passeresti la quarantena”. Molti colloqui in
questi giorni sono sulla qualità della vita, le repentine scelte da fare, le persone da lasciare e quelle
da riavvicinare, i conti con la solitudine e con le fragilità personali.

Gli introversi sono avvantaggiati, ma molti sono addirittura sgomenti nel trovarsi all’improvviso in
così intimo contatto con sé stessi, qualcuno scivola lentamente in una depressione, da sempre
compensata in una frenetica relazione con il mondo, ora interrotta, che lascia un vuoto pieno di
domande inascoltate, disperazioni rimosse. Poi ci stanno le situazioni esasperate, l’esposizione
continua alla violenza dentro le mura di casa che la quarantena richiede, senza più rete, senza più
alleati, senza via d’uscita, di cui i bambini sono spesso le vittime finali, di rapporti coniugali avvitati
in escalation invivibili, di tossicodipendenze forzatamente interrotte.

Figure dell’ansia e discorso pubblico


Non mi addentro in considerazioni sociologiche, non è il mio, ma lo spostamento del capro
espiatorio da una tipologia di individui a un’altra è ormai evidente da anni nel nostro paese,
costruito ad arte e voluto dalla scelleratezza di una classe politica nefasta, che da anni ormai
costruisce il suo consenso sulla paura e anche in questa occasione, si vede. Il senso di comunità in
Italia è ormai minato alle radici
, e anche oggi al di là della retorica, dell’ #andratuttobene, dei
manifesti che recitano che siamo un grande paese, di pentole e bandiere fuori dai balconi densi di
sentimento nazionalpopolare, i cittadini sono già dediti allo spionaggio, all’aggressione reciproca,
allo scavalcamento e alla colpevole dimenticanza dei più fragili. Storditi da un discorso mediatico
confuso, ma tesi ad ascoltare il resoconto del contagio minuto per minuto, pronti ad urlare dalla
finestra alla vecchietta che torna con la poca spesa che riesce a portare: “a casa! Devi stare a
casa!” perché anche la paura diventa, in un certo qual modo, una forma di intrattenimento, così
come le supposizioni, le illazioni, l’accapigliarsi sui social diventa un disperato modo di sedare
l’ansia dell’incertezza, la paura del domani, coltivare l’illusione del controllo.

Sembriamo meno attenti invece a capire i numeri (purtroppo assolutamente inaffidabili), le
dinamiche internazionali (non trasparenti), le scelte del nostro governo, tutti rapiti dalla paura, al
punto che Giuseppe Conte è diventato un sex symbol, l’uomo forte e capace che ci tirerà fuori da
questo guaio, il politico sex symbol, come il capro espiatorio sociale ruota… Tutti dentro lo stesso
mantra stiamo a casa, stiamo a casa, ma cos’è che ci spaventa? Davvero il collasso delle strutture
ospedaliere, unico motivo per cui questo isolamento sociale è necessario e va osservato con
impegno?
La figurazione del nemico invisibile, che non puoi controllare, che ti può attaccare, ma non sai
come, dove, quanto e quando e che ti paralizza, come l’urlo terrificante del dio Pan che non sai da
dove arriva e ti pietrifica, ricordandoti che sei vulnerabile, che ogni cosa è fragile e che tutto
cambia. Il discorso pubblico alimenta l’idea di questo virus come un nemico, vinceremo questa
battaglia, uniti lo sconfiggeremo, insomma siamo in guerra, non in un’emergenza sanitaria, tutta
da capire e da gestire politicamente su cui il mondo scientifico dibatte.
Sotto il cartello coronavirus si affollano tutte le nostre paure, le nostre fragilità, le nostre
vulnerabilità.
Le persone mi chiamano dallo sportello di supporto psicologico di emergenza,
perché si sentono in ansia, fino a vere crisi paniche, cominciano col dirmi: “sa dottoressa ho la
febbre a 37, 5, ho la tosse, ho il mal di gola, senz’altro mi sono presa questa malattia, non dormo,
non mangio” e allora c’è un primo livello di intervento, che è capire con quale medico sono in
contatto, se sono seguiti, consigliati. Ma spesso i medici di base, di cui nessuno parla, ma che
stanno facendo un grande lavoro, consigliano semplicemente di prendere del paracetamolo e di
aspettare. Ed ecco che sale il panico.
Un secondo livello di intervento è l’accettazione dei sintomi e
la prospettiva di poterli superare stando a casa. Non mi ci metto a persuaderle che probabilmente
il loro medico ha ragione e non hanno contratto il corona virus, se si può ragionar con la paura non
è negandola, ma provando a mettersi accanto per attraversarla. Eccomi a dire: “signora guardi,
può darsi che lei abbia contratto il virus, ma come sa la maggioranza dei casi non necessita di
ricovero, cosa sta facendo per fronteggiare la malattia e scongiurare il più possibile questa
eventualità? E mano a mano si entra nella vita quotidiana di ciascuno, nelle sue abitudini,
nella possibilità di discipline di cura, alimentazione, ginnastica. Poi s’instaura il dialogo e si scopre che
ciò che le persone chiamano virus, col virus c’entra poco, le ansie, le angosce e i fantasmi di
ciascuno cominciano a riempire lo schermo del mio pc
. E intanto, spesso, i sintomi regrediscono un
po’, diventano più accettabili. La narrazione sociale di tipo bellico non aiuta, dobbiamo cautelarci
certo, osservare le norme igieniche e di isolamento (queste ultime poi volenti o nolenti), ma
questa rigida difensività ci ammala anch’essa, e non poco, concausa quanto meno del male.
A sera chiudo il pc e mi bruciano gli occhi, dicono che anche la congiuntivite sia un sintomo del
coronavirus.

Per chi può, c’è il vuoto che rigenera


In questo momento stare vicino alle persone più fragili significa aiutare il nostro sistema sanitario
ad affrontare l’emergenza,
speriamo che usciti da questa ci ricorderemo quanto vale la salute
pubblica e in cosa si declina, ma ora facciamo parte di una comunità stando a casa e cercando di
ridurre i contatti il più possibile, e quando non è possibile, osservando le misure di sicurezza
prescritte, dando vita ad altre prossemiche, ad altri modi.
Sottraiamoci, evitiamo il contagio, soprattutto quello psichico, che è pervasivo, cerchiamo di dare
qualità ai contatti.

Come quando ci bendano gli occhi o siamo al buio che il tatto diventa così intenso e sensibile, ora
il tatto ad essere impedito, apriamo gli occhi, apriamo il sentire.
Questo non è un tempo per barricarsi, smettere di vivere, non è un’odiosa e pericolosa
sospensione dalla nostra vita e certamente non è nemmeno una vacanza. Quando si affacciano il
vuoto e l’incertezza, la paura del domani e l’angoscia possono prendere il sopravvento e il nostro
spazio riempirsi di parole, congetture, supposizioni, discussioni, polarizzazioni di punti di vista,
razionalizzazioni, al solo scopo di temporeggiare e contenere l’ansia. Ma questo non è il tempo del
controllo, né dei progetti e della volontà, è il tempo del vuoto. 
Il vuoto come siamo abituati a pensarlo noi, confluisce nel nichilismo, nell’abbandono, nella morte.
Mentre dall’altra parte invece è la condizione di possibilità di tutti gli eventi, di tutte le cose. Il
vuoto in questo senso è il massimamente pieno. Siamo chiamati alla sottrazione dell’io, a togliere
presenza, volontà, potenza, e a porci in una dimensione di ascolto di quell’alterità psichica che ci
abita e di cui spesso nel nostro affannarci abbiamo sentito nostalgia. E’ il tempo dell’attesa, del
lasciar emergere, del sovvertimento delle cose e forse di un nuovo ordine, ma non è un tempo
passivo, al contrario, è il tempo del mestiere della vita.
Chiudo qui con le parole di C.G Jung
sull’importanza della vita simbolica, augurandomi che questo sia anche un tempo di
riavvicinamento ai bisogni dell’anima.

L’uomo, vedete, disperatamente bisogno di una vita simbolica. Nella nostra vita incontriamo
soltanto cose banali, comuni, razionali o irrazionali… e perfino queste ultime rientrano nell’ambito
del razionalismo, altrimenti non potremmo definirle irrazionali. Ma non abbiamo una vita
simbolica. Dove viviamo simbolicamente? In nessun luogo, se non quando partecipiamo al rituale
della vita. Ma chi, nella gran massa della gente, partecipa veramente al rituale della vita?
Pochissimi (…) C’è nella vostra casa un angolo riservato ai riti, come in India? Là anche nelle case
più semplici c’è almeno un angolo riparato da una tenda dove i membri della famiglia possono
condurre la loro vita simbolica, fare i loro voti e meditare. Noi non l’abbiamo; non abbiamo
nessuno spazio del genere. Abbiamo ciascuno la nostra stanza, naturalmente… ma anche un
telefono che può squillare in qualsiasi momento, e noi dobbiamo essere sempre pronti a
rispondere. Non abbiamo né tempo, né spazio. Dove teniamo queste immagini dogmatiche o
misteriose? Da nessuna parte! Abbiamo le gallerie d’arte, certo, dove uccidiamo migliaia di dèi.
Abbiamo spogliato le chiese delle loro immagini misteriose, magiche, per confinarle nelle gallerie
d’arte. Dunque, non abbiamo una vita simbolica e ne abbiamo disperatamente bisogno. Solo la vita
simbolica può esprimere i bisogni dell’anima, i bisogni che la nostra anima manifesta ogni giorno!
E poiché non l’abbiamo, non possiamo mai liberarci da questa diabolica macina, questa vita
spaventosa, opprimente, banale in cui non siamo che “nullità”. Nel rituale si è vicini a Dio, perfino
divini (…) Tutto è insignificante, “nient’altro che” ed è per questo che la gente diventa nevrotica. È
semplicemente stufa di tutto, di questa vita banale, e perciò vuole qualcosa di sensazionale.
Perfino una guerra: tutti vogliono una guerra. Sono felici quando c’è una guerra. Dicono: “Grazie al
cielo, ora succederà qualcosa, qualcosa di più grande di noi!”
Queste cose hanno radici profonde, e non c’è da stupirsi se la gente diventa nevrotica. La vita è
troppo razionale: manca un’esistenza simbolica in cui si possa essere qualcosa di diverso, in cui
compio il mio ruolo, il mio ruolo come attore nel dramma divino della vita.
C.G. Jung, La vita simbolica, Bollati Boringhieri 1993



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