ASINITAS Onlus is a not-for-profit organization founded in 2005. It is active in the field of education and social work. Its mission is to promote the care, education, training, sheltering and testimony of Italian and foreign adults and minors.

Author: matt

La gravidanza e la maternità sono delle fasi bellissime della vita di una donna ma al contempo portano un tale cambiamento che spesso fa emergere crisi, insicurezze, paure e senso di inadeguatezza. Questi sentimenti vengono amplificati ovviamente in questo periodo di pandemia. Immaginate di trovarvi...

Maison de Dieu apparizioni di umanità 3 ottobre, ore 21 4 ottobre, ore 19 Spazio Rossellini, Via della Vasca Navale 58, Roma Signore e signori, benvenuti alla sfilata de la Maison de Dieu! Qui davanti a voi, a pochi passi da voi, sfileranno tutte le...

Per l'anno 2020/2021 Asinitas organizza un percorso formativo per insegnanti di italiano come lingua non materna che si rivolgono ad apprendenti di qualsiasi età e che operano in contesti differenti. Il percorso è composto da cinque incontri incentrati sul metodo Asinitas il cui cuore è...

Dal 15 giugno al 29 luglio Via Policastro 45 (Torpignattara), Roma Finalmente ricominciamo con le nostre attività in presenza! Da metà giugno inizieranno di nuovo i nostri corsi di italiano per migranti e andranno avanti fino alla fine di luglio. COME? Alcuni corsi si svolgeranno in presenza all'aperto...

LE NOSTRE RISPOSTE ALL'EMERGENZA COVID-19 

Per stare a fianco di chi in questi giorni di emergenza sta in prima fila negli ospedali e per tutti coloro che non possono permettersi di stare a casa ad aspettare che vada tutto bene, abbiamo attivato due partnership per garantire un sostegno psicologico gratuito e di qualità,
con
Médecins du Monde - Missione Italia, e con la ONG Mediterranea

Diario di una psicoterapeuta in quarantena.


"Stare vicino alle persone più fragili significa aiutare il nostro sistema sanitario
ad affrontare l’emergenza
"

Vi ricordate quando lo spazio privato e lo spazio di lavoro erano due luoghi distinti?

Cecilia Bartoli
psicoterapeuta Asinitas


Ore 7.00 mi sveglio, apro la finestra, l’aria fresca e pulita colpisce i miei polmoni, respiro.
Gli uccelli sembrano più felici in questi giorni. Chissà se è solo una consolatoria fantasia che la
natura goda di vederci un attimo fermi, un attimo da parte.
Mi faccio il caffè, vitamina C, spremuta, fermenti lattici.
Meditazione, lunghi e lenti respiri, intervallati da apnea, visualizzare i propri polmoni.
Uscire a correre, solo sotto casa ormai, conosco a memoria ogni portone, ogni angolo, ogni gatto
con le stesse svogliate abitudini mattutine.
Bisogna uscire presto al mattino per correre, la disapprovazione sociale si fa sempre più alta e ed
esplicita, fino all’insulto. Non sono una sportiva, ma ho bisogno di sentire i miei polmoni sotto
sforzo, corro, con una musica che pompa nelle orecchie, respiro finché non sento che mi bruciano,
la fantasia è che l’ossigeno possa pulire l’infezione, portarla via, dato che forse c’è. Pensiero
magico, non sono un medico e non so nulla di come agisce questa infezione, ma so che la
correlazione tra ansia e sistema immunitario è un’evidenza scientifica da tempo
, e quindi
nonostante questa stenti a passare nelle logiche di prevenzione dei nostri sistemi di salute
pubblica, dato che correre de-stressa, si corre. Sono 15 giorni che ho un forte mal di gola,
oppressione al petto, difficoltà respiratoria, non un colpo di tosse, non una linea di febbre. Ma
come tutti riconduco questi sintomi e le mie ansie al covid-19, ponendomi una domanda comune,
sarò una paziente asintomatica? Cerco di curarmi, come tutti gestendo lo spavento e la confusione
mediatica
. Mio figlio di 19 anni vive con me e non ha nemmeno un sintomo, anche se fuma
troppo, vorrei obbligarlo a smettere, ma come si fa in questo periodo a chiedergli una cosa in più.
Tenerlo a casa in osservanza delle norme è già abbastanza difficile. Ognuno di noi in questi giorni
vorrebbe stare accanto ai suoi affetti, alla sua famiglia. In pochi pensano che per un’adolescente la
famiglia sono gli amici e loro, pur essendo molto più abituati di noi agli schermi, ai video, alla casa,
ora soffrono la solitudine come animali in gabbia.
Rientro, disinfetto le scarpe, le metto fuori (ma servirà veramente? Che concentrazione virale ci
può essere su un asfalto esposto al sole?) Mi cambio metto i vestiti fuori, lavo viso e mani, preparo
la postazione di lavoro, pc vicino alla finestra, che ci sto lasciando gli occhi su questo schermo
colpito dalla luce. Ma il sole serve, il sole è medicina, la tazza con la tisana di zenzero accanto,
dicono che pure quella fa bene.

L’immagine del pc con una tazza accanto e dei libri sparsi sul tavolo, che mi guardano invitandomi
ancora una volta, almeno adesso, a una maggiore introversione, sempre desiderata e sempre
messa da parte. I libri per studiare che da una vita dovresti leggere, quelli di poesia per un altro
genere di respiro, i romanzi nella speranza che siano in grado di rapirmi in qualche altrove.
Comincio gli ascolti della giornata, i miei pazienti che ormai vedo quasi tutti su skype e quelli nuovi
che mi chiamano dai due sportelli on line di soccorso psicologico per l’emergenza a cui ho aderito
come volontaria.
Poi ci sono i parenti e gli amici, molti dei quali sono diventati anch’essi un lavoro,
poiché in questi momenti bisogna stare molto attenti alla fragilità che ci circonda, cogliere tra le
righe delle loro comunicazioni.
Mi era già capitato di lavorare on line, la mia seconda analisi didattica si svolge on line, un paziente
che viaggia per lavoro ogni tanto lo seguo così, ma non mi ci sono mai trovata bene, l’osservazione
e il vibrare dei corpi, è tanto in una relazione terapeutica.

Videopresenza e solitudine


La relazione terapeutica a distanza non è meglio o peggio, è un'altra cosa.
Sicuramente necessita di maggiore concentrazione, estrema attenzione, mancando i corpi ricevo
meno informazioni quindi sento una tensione nell’ascolto e nello sguardo che non avevo mai
sperimentato. La videocamera alla quale dovremmo essere estremamente abituati in questa
dimensione di perenne selfie collettivo, io non riesco a dimenticarla, né su di loro, né su di me, mi
da l’idea che sia uno sguardo terzo che entra, qualcosa la cui presenza non posso ignorare, che
non mi abbandona mai nemmeno nei momenti di commozione, o sfogo emotivo dei pazienti,
nemmeno tra le lacrime, le grida e i sussulti. Mi chiedo se in presenza sarebbero stati uguali, quei
pianti, quelle grida, quei sussulti, forse no. La distanza in un certo senso libera e a volte ho
l’impressione che ci sia grande autenticità.
Eppure quando chiudo la chiamata a fine seduta, non
riesco a liberarmi dalla sensazione che li sto lasciando dolorosamente soli. Un contatto senza
contatto. Rifletto sul mio controtransfert, non li ho mai amati così tanto come in questi giorni.
La solitudine è un tema ricorrente per tutti noi, chi la desidera in modo spasmodico: alcune
pazienti si collegano sedute sulla tazza del bagno: “mi scusi dottoressa, non c’è un altro luogo in
cui stare un po’ tranquilla” e di là si sente la televisione con i notiziari, grida con i bambini, un
rumore domestico che sembra non lasciare scampo. La tensione di convivenze al limite che arriva
all’improvviso durante la seduta, con il frenetico bussare alla porta di qualcuno.
E poi chi la solitudine la sta vivendo dolorosamente, allontanato dai genitori anziani, dal proprio
amore, dai propri punti di riferimento affettivi, sessuali.
E ancor più difficile per chi non sapeva,
non credeva di essere solo e ci si trova all’improvviso, con il proprio rapporto affettivo saltato e la
propria rete dispersa. Essere soli di fronte alla morte, alla paura del domani, con il proprio corpo
che è diventato oggetto di attenzione continua, più nel male che nel bene.
E mentre mi sento dire: “dottoressa, meno male che c’è lei”, dentro di me penso, meno male che
ci siete voi, che avete bisogno di me. Anche in questa strana forma di relazione, siamo connessi.
Connessi, con una connessione così fragile: “dottoressa mi sente? Mi sente? Aspetti spostiamoci
su wathsapp, possiamo lasciare il video su skype, ma la chiamo al telefono perché la connessione
va a scatti. Aspetti non la sento, diceva?” aggiustamenti continui di una comunicazione che a tratti
si fa estremamente difficoltosa, allora cerchi di estrapolare velocemente i momenti e i contenuti
significativi, cambiano i tempi di rimando, quei silenzi così gravidi nelle sedute in presenza hanno
cambiato atmosfera. L’ansia che la connessione si disturbi. Scegli parole efficaci, sintetiche, chiare,
semplici. Lavoro a togliere, non è detto che sia un male, anzi. Non c’è più spazio per il divagare e
per la complessità.
Bisogna intensificare l’intenzione verso l‘altro, la concentrazione, l’efficacia
comunicativa. Parole che buchino lo schermo si dice in gergo televisivo, mi torna in testa di
continuo: bucare lo schermo.
Ma in alcuni momenti invece la tentazione di distrarsi è fortissima, non si vedono che i visi, si
potrebbe leggere un messaggio sul telefonino nel frattempo, o fare qualsiasi cosa con il resto del
corpo, se se ne sentisse la voglia.
E poi c’è il tema della privacy, potrebbe esserci un terzo nella stanza in ascolto, nella mia e nella
loro. Qualcuno lo verbalizza: “dottoressa, ma è sola?” così giro il computer per la stanza: “si sono
sola”
Eppure nonostante questo a volte tutto è incredibilmente fluido, autentico, intimo. Lo noto
soprattutto con le persone che mi chiamano nello sportello di emergenza e penso che in
condizione normali, e con il setting abituale, forse avrei messo mesi a entrare nella stessa
dimensione di confidenzialità

La patologia collettiva che cura


Quando questa dimensione di isolamento sociale è cominciata ero preoccupata per i pazienti più
gravi, chi soffre di paranoia, gli ipocondriaci, i depressi, dentro di me dicevo: “Mio Dio come farò a
sostenerli a distanza”, crolleranno, le dimensioni patologiche si amplificheranno, sarà
difficilissimo.
Ma già nella prima settimana sono stata molto colpita dallo scoprire che era un pensiero ingenuo.
Queste persone sono estremamente più attrezzate a vivere le nuove circostanze. Anzi, è come se
finalmente vedessero riconosciuto da altri il disagio che portano dentro in solitudine da un tempo
che è parso loro interminabile.
Il sintomo vissuto sempre come marcatore di differenza e distanza, portato con vergogna, ma
intuito sempre come profetico nel profondo di sé stessi, oggi è socialmente legittimato. La
solitudine, l’isolamento è il problema più grande di chi soffre psichicamente, che come dice Jung
non deriva dal fatto di non avere nessuno intorno, ma dall’incapacità di comunicare le cose che ci
sembrano importanti o dal dare valore a certi pensieri che gli altri giudicano inammissibili.

L’atteggiamento sociale mutuato dalla tendenza culturale della psichiatria più diffusa, che è
somatologica, è di escludere la soggettività dai comportamenti e con essa la ricerca dei significati che
li connotano, e di ricorrere ai farmaci per l’attenuazione dei sintomi. La solitudine sociale delle
persone che soffrono psichicamente, spesso si consolida in un isolamento difficile da raggiungere.
Ma ecco che all’improvviso una patologia collettiva viene a ri-umanizzare il proprio vissuto,
donando la possibilità di riconoscersi negli altri, finalmente tutti fragili, vulnerabili, perseguitati ed
esposti
. Per dirla con De Martino, la possibilità di sentirsi nuovamente presenza, nuovamente
dotati di senso, in un contesto dotato di senso.
Così lei che soffre da anni di paranoia, che normalmente si sente controllata, spiata in qualsiasi
cosa fa, minacciata e convinta che il male la insegua, sfida serenamente la polizia e con la sua
autocertificazione in tasca è l’unica che viene a studio, si siede, mi guarda e mi dice: “me posso
toje la mascherina dottore’ ”
Così lui che soffre di una depressione piuttosto grave, spesso amplificata da scenari apocalittici
globali, tali da mettere sotto scacco quasi ogni volontà individuale, ora che tutti siamo fermi,
impotenti, sotto scacco, non si sente più un profeta nel deserto, ma qualcuno che ci spiega come
continuare a vivere. Ora finalmente la catastrofe sempre sentita dentro di sé può essere
esternalizzata, oggettivizzata e dunque forse anche oggetto di cura. Non l’ho mai visto tanto
sollecito verso il prossimo.

E’ possibile un teatro a distanza? Un teatro senza i corpi? Ce lo chiediamo da giorni, e mentre il mondo teatrale discute e dibatte e molti attori e registi propongono lavori in video, dirette streaming e quant’altro, noi nel nostro piccolo proviamo ad andare avanti,...

La giornata internazionale della lingua madre è una celebrazione indetta dall'UNESCO il 21 febbraio di ogni anno per promuovere la madrelingua, diversità linguistica e culturale e il multilinguismo. La data è stata scelta per ricordare il 21 febbraio 1952, quando diversi studenti bengalesi dell'Università di Dacca furono uccisi dalle forze di polizia del Pakistan (che allora comprendeva anche...

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